Tra le Due Italie
Ieri pomeriggio il re Vittorio Emanuele IV ha rotto il silenzio pronunciando da Brindisi le parole che tutti si aspettavano e che nessuno voleva sentire: “Compatrioti e amici, l’esercito del nostro paese è pronto a dare una risposta decisa ed inequivocabile alle azioni criminali commesse da Bologna. I corpi stesi a terra, martoriati ed irriconoscibili dei nostri fratelli a Viterbo non resteranno impuniti. Questo io ve lo giuro sull’onore mio e della mia famiglia”.
Venti di guerra attraversano la penisola italiana e la tensione è tornata ai livelli della Guerra di Separazione, un conflitto spentosi ormai sessanta anni orsono ma i cui effetti hanno scandito la storia delle due Italie per le generazioni a venire.
Il discorso del re è una naturale conseguenza del violento attacco scatenato l’altro ieri dalla Repubblica Popolare Italiana la quale, dalla città fortezza di Terni, ha sparato trecentoventi colpi di artiglieria nella zona nord-ovest di Viterbo, in prossimità della caserma Porta di Luce,
Nel 1944 i sovietici "liberarono" Bologna con l'aiuto dei partigiani |
uccidendo diciannove “Guardie del Regno” e ventisei civili.
Roma ha risposto all’attacco facendo immediatamente decollare tre bombardieri B-22X. Nei venti minuti successivi gli aerei hanno scaricato diverse tonnellate di materiale esplosivo sulle postazioni di artiglieria della città nemica.
Non sono ancora chiare le ragioni dell’attacco ma si presume che le esercitazioni navali tra il nostro paese e gli Stati Uniti iniziate questo settembre abbiano innervosito parecchio il politburo di Bologna.
Questa rimane senza ombra di dubbio una delle più gravi crisi che l’Italia divisa si sia mai trovata ad affrontare.
Il re, in seguito all’attacco, dopo aver aggiornato il presidente statunitense degli sviluppi della crisi, ha convocato per una seconda volta il Maresciallo dell’Arma, il Primo Ministro Valorio e il gabinetto di guerra al completo per una riunione straordinaria.
Secondo le prime indiscrezioni sembra che il presidente John McCain abbia insistentemente invitato Vittorio Emanuele IV, il Maresciallo Ambiteo e il primo ministro Valorio alla moderazione anche se, da Washington, ha condannato aspramente l’attacco dei comunisti al nostro paese.
Qualsiasi decisione definitiva prenderanno i vertici politici questa sera, una cosa rimane certa: la tensione nella penisola non è mai stata così alta.
Dopo gli incidenti di frontiera di luglio e di agosto, le esercitazioni militari congiunte tra la Repubblica Popolare Italiana e la Jugoslavia e la risposta alleata questo settembre, la guerra tra le due Italie ormai non sembra più solo un’inquietante eventualità, ma un probabile sviluppo.
I volti sconvolti e in lacrime di decine di migliaia di romani che, dagli schermi di Piazza del Popolo, assistevano in diretta all’attacco dei comunisti, le violente manifestazioni consumatesi a Napoli e le dichiarazioni degli unionisti di Palermo non lasciano molto spazio all’immaginazione: il popolo ha perso la pazienza e chiede una risposta che non lasci spazio ai compromessi.
Ormai la maggioranza dell’opinione pubblica del sud sembra pensare che sessanta anni siano troppi per sperare che una pacifica soluzione risolva i problemi della penisola.
La frase simbolo di una generazione di sudisti: “L’Unità sa dà fa”, non è mai stata così ripetuta per le strade di Brindisi, Roma, Napoli, Palermo e Pescara.
Anche nel Nord Italia, secondo le nostre fonti, la situazione sembra aver raggiunto un punto di non ritorno. La propaganda comunista sta mobilitando le assemblee popolari di Milano, Torino, Genova e Firenze per assicurare un sostegno sicuro alla leadership rossa mentre il leader del politburo, Vasto De Belli, ha dichiarato da Bologna di essere pronto alla guerra.
Sul versante internazionale l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, che hanno entrambe ricevuto importanti finanziamenti dall’Italia comunista in questi ultimi anni, hanno dichiarato il loro sostegno incondizionato alla “compagna minacciata”.
Il presidente della Repubblica Democratica Tedesca gli ha fatto eco aggiungendo inoltre di “avere già pronti cinquantamila volontari da mandare alla sorella italiana” in caso di un attacco degli USA e dell’Italia del Sud.
I tedeschi non sembrano aver dimenticato l’aiuto dei comunisti italiani che, nel bel mezzo della crisi del 1989, quando alcune sezioni del Muro di Berlino vennero distrutte da una rivolta popolare, attraversarono l’Europa e preservarono il governo comunista da quella che molti analisti ritenevano una fine imminente.
In questo clima internazionale fluido e incerto, la polveriera europea sembra pronta ad esplodere. Nonostante gli inviti alla calma degli inglesi e i deliri di quei poveri diavoli dei francesi che si ostinano ancora oggi, nel 2010, a parlare del bisogno di costruire una “confederazione” o “unione” europea, questa volta sembra si sia giunti al punto di rottura.
Il conflitto mai concluso tra le due Italie, quella comunista e quella capitalista, sembra destinato ad un’amara conclusione.
Oggi, considerato tutto ciò, fa sorridere e pensare la frase buttata un po’ lì da Umberto II che, nell’agosto del ’46, quando Bologna diveniva ufficialmente la capitale dell’Italia comunista, disse guardando la cartina inesorabilmente divisa del suo paese: “chissà come sarebbe stato se avessimo avuto un’Italia Unita”.
Esercizi di Fantapolitica
Ho sempre pensato che la “fantapolitica” fosse una maniera semplice anche se non esaustiva per rispondere a quell’interrogativo che molti professori di storia temono possa uscire dalle labbra dei propri alunni: “Professore, e se…”: “e se Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale?”, “e se i cartaginesi avessero sconfitto Roma nella prima guerra punica?”, “e se gli inglesi non avessero colonizzato il Nordamerica?”, “e se Dante non avesse scritto la Divina Commedia (ok, non c’entra niente, anche perché temo che questo sia più un recondito desiderio di molti liceali piuttosto che un’innocente ipotesi), “e se i sovietici avessero liberato il Nord Italia prima degli Alleati?”
È molto probabile (perché al sottoscritto è successo più volte) che dopo una domanda di questo genere, da dietro la scrivanie del professore di turno esca fuori la famosa frase: “la storia non si fa con i se”.
La fantapolitica nasce quando tutti coloro che non si accontentano di questa lapidaria risposta decidono di crearsene una da soli.
Per quanto mi riguarda “fare fantapolitica” significa fare storia in un modo molto particolare. Ancor meglio: fare fantapolitica significa “creare la storia”.
E a che serve? Ebbene, per fare fantapolitica, o meglio, per fare della buona fantapolitica, bisogna sapere molto bene la “vera storia” e cambiarla in maniera credibile (altrimenti la “fantapolitica” diventa semplicemente “fantascienza”).
L’Italia del nord non è mai stata “liberata” dai sovietici. L’Italia del sud non è mai diventata una nazione a parte in cui la dinastia dei Savoia era ancora regnante. La Jugoslavia, l’Unione Sovietica e la Repubblica Democratica Tedesca non sono sopravvissute alla prova del tempo.
In questo senso, fare fantapolitica significa fare lo sforzo di andare oltre quello che troviamo scritto sui libri di storia.
Ma perché prendersi il disturbo? Secondo il sottoscritto perché dare almeno un po’ di rilevanza a tutti quei fastidiosi “se” è visto da alcuni come un semplice esercizio per tenere la mente allenata, da altri come un modo per approfondire la storia quel tanto che basta per poterla plasmare e poi sviluppare sotto forma di racconto e per altri ancora un modo innocente ma interessante per prendere qualcosa che sta realmente accadendo oggi in una parte del mondo e trapiantarla in un altro luogo o in un altro periodo per vedere come sarebbe stato “se”…
La Nazione Spezzata
Lee Myung-bak parla alla nazione |
Concittadini, è giunto il momento di dimostrare la nostra determinazione con azioni piuttosto che con parole”.
Questa non è fantapolitica.
Sei giorni prima 200 colpi di artiglieria provenienti dalla Corea del Nord avevano colpito Yeonpyeong, una piccola isola sudcoreana con una popolazione di circa 1700 abitanti.
Questo attacco è solo uno degli ultimi guizzi di una guerra che dura da circa sessanta anni in una delle zone che molti osservatori internazionali non esitano a definire una delle “polveriere” più pericolose del mondo: la penisola coreana.
La penisola coreana ha un’estensione e una popolazione simili a quelle dell’Italia, quindi relativamente trascurabili. Non è particolarmente ricca di risorse e la posizione geografica ha una importanza strategica certamente rilevante ma non determinante.
L'isola di Yeonpyeong è situata nel Mar
Giallo, a circa 13 Km dal Nord. La sua at-
tività principale è la pesca
|
Prima della seconda guerra mondiale la penisola coreana era parte integrante dell’impero giapponese. Una volta messo in ginocchio il gigante asiatico e terminato il conflitto i vincitori, USA e URSS, si ritrovarono il destino della penisola nelle loro mani.
I Russi occuparono il nord del paese e gli statunitensi il sud. La “buona intenzione” di entrambe le superpotenze era quella di unificare il paese sotto un’unica leadership ma come dice l’assai intelligente detto, “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”.
Il nuovo clima della guerra fredda, infatti, non solo impedì l’unificazione dell’isola ma contribuì ad uno dei conflitti più sanguinosi e cruenti del secondo dopoguerra. Nello scontro risultarono coinvolti nordamericani, europei, coreani del sud e del nord nonché cinesi. Dal conflitto non uscì fuori nessun vincitore indiscusso ma la perdita di vite umane fu catastrofica: cinque milioni di morti tra militari e civili.
Risultato: la corea venne divisa in due parti, separata dal leggendario 38˚ parallelo e, cosa ancora peggiore, il conflitto iniziato nel giugno del 1950 non venne concluso con un trattato ma semplicemente interrotto con un armistizio. Ciò significava che le due Coree, di fatto, rimanevano in guerra.
Nei decenni seguenti gli incidenti tra le due parti si susseguirono con costanza e la guerra fredda non contribuì a distendere il clima nella regione. Nonostante frasi dure, muscoli tesi e qualche incidente sparso, tuttavia, nessuna grave crisi disturbò mai in modo serio la pace di cristallo che si era venuta a creare.
Per sessanta anni le due Coree si guardarono in cagnesco abbagliando l’una contro l’altra ma senza mai “venire alle mani”.
Eppure nel corso del 2010 una serie di eventi ha contribuito a rendere il clima teso come non lo era dalla guerra degli anni Cinquanta.
Tutto è cominciato con il misterioso affondamento della nave da guerra sudcoreana Cheonan il 26 marzo 2010 e con la morte di 46 membri del suo equipaggio.
Nelle settimane seguenti una commissione composta da esperti internazionali stabilì che ad affondare il vascello era stato un missile di fabbricazione nordcoreana. Il governo comunista ha sempre negato qualsiasi legame con la vicenda e bollato le accuse come semplice propaganda.
La situazione peggiorò ulteriormente quando, tra luglio e settembre, gli Usa e la Corea del Sud decisero di svolgere diverse esercitazioni militari congiunte per mostrare al Nord Corea determinazione e coesione. Gli Usa imposero inoltre nuove sanzioni contro il paese comunista.
Il 29 ottobre le due Coree sono passate dalle parole ai fatti scambiandosi diversi colpi di artiglieria che fortunatamente non provocano nessuna grave conseguenza.
Ancora, il 12 novembre la Corea del Nord ha mostrato ad un esperto statunitense nuovi impianti capaci di produrre materiale utile per creare ordigni nucleari. Il fatto che i comunisti posseggano i mezzi per lanciare un ordigno nucleare è un ulteriore campanello di allarme per la Corea del Sud ed i suoi alleati.
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L’attacco nordcoreano all’isola è stato il primo attacco sul suolo sudcoreano dalla guerra di Corea risolatosi con la morte di civili. Il fatto è grave se non altro perché, prima di questo evento, la maggior parte degli scontri passati tra Nord e Sud sono stati tra forze militari. Dopo questo attacco va detto che l’atteggiamento tradizionalmente rilassato e permissivo dei sudcoreani è cambiato radicalmente. Lo testimonia una delle dichiarazioni del presidente Lee Myung-Bak che, poco dopo l’attacco, ha affermato senza mezzi termini: “il Nord pagherà il prezzo di ogni ulteriore provocazione”.
Quanto fino ad ora detto giustifica la risonanza che i media hanno dato negli ultimi mesi alle notizie provenienti dalla penisola coreana.
Ci sono ovviamente altre ragioni che contribuiscono a rendere questi fatti ancora più rilevanti non solo per la stabilità della penisola, ma dell’Asia e del mondo intero.
Come ho già detto quello in Corea è un conflitto mai terminato. Ciò significa che gli antichi alleati statunitensi che hanno combattuto per difendere la Corea del Sud dall’invasione del Nord non sono meno vigili di quanto erano sessanta anni orsono. Ciò è testimoniato dai ventottomila militari nordamericani stanziati nel Sud, pronti, qualora fosse necessario, ad una vera e propria guerra.
Ma se il Sud ha un “patrono protettore” il Nord non è da meno. A vegliare sulla sua incolumità c’è un gigante che dispone di un esercito di oltre due milioni di effettivi e della capacità economica e della volontà politica di mandare in bancarotta i potenti paladini della democrazia. Questo colosso è ovviamente la Cina che aveva già “investito” mezzi, risorse e uomini per assicurare la sopravvivenza della compagna nordcoreana quando questa venne minacciata dalla superpotenza occidentale. Giappone, Russia, Unione Europea sono soltanto alcuni altri protagonisti interessati in prima persona a qualsiasi cosa si muova in Corea.
Ma perché ora e in questo modo la Corea del Nord sembra aver deciso di focalizzare su di sé l’attenzione di tanti influenti protagonisti della politica internazionale?
Le ragioni, secondo gli esperti, potrebbero essere tre.
La prima ragione è quello che potrei chiamare il “problema della successione”. Jeung Young Tae, direttore del Centro Studi per la Corea del Nord, afferma che il Nord Corea ha bisogno di questo tipo di azioni-provocazioni per assicurare un cambio di leadership sicuro e il più in fretta possibile.
In questo periodo è infatti in corso nelle alte sfere nordcoreane una serie di dibattiti su chi dovrà esercitare il potere supremo sulla nazione comunista. Ora che Kim Jong-il, il “caro leader” in carica dal 1993, è indebolito da gravi problemi di salute, si guarda al figlio Kim Jong-un (nato nel 1984) per continuare la dinastia Kim iniziata con il leggendario fondatore del Nord Corea, il “Grande leader” Kim Il-sung.
La Corea del Nord sembrerebbe in questo momento e per questa ragione particolarmente vulnerabile. Così, secondo alcuni esperti, deve mostrarsi sicura e baldanzosa e diffondere un’immagine di unità e coesione per evitare che il delicato periodo di cambio di leadership venga usata dai nemici per distruggere il potere dei comunisti sul paese.
La seconda ragione dell’aggressività nordcoreana molto quotata dagli esperti internazionali potrei definirla “della propaganda”. Il Nord Corea è sempre stato un paese povero e arretrato e, soprattutto negli ultimi decenni, economicamente inferiore al Sud. Basti pensare che, secondo l’esperto di politica internazionale Lee Jong Wong, l’economia della Corea del Sud è qualcosa come quaranta, cinquanta volte più forte di quella dei vicini del Nord.
Per queste ragioni i blackout nelle città del nord sono frequenti, il carburante scarseggia e il cibo anche.
Così, dopo decenni di stenti e privazioni, il malcontento nella popolazione del nord starebbe crescendo. Questo potrebbe essere un altro fattore dietro l’atteggiamento bellicoso del Nord Corea. Gli attacchi e le parole dure dovrebbero servire a ricompattare la popolazione povera e affamata sotto la leadership comunista.
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Il suo programma di arricchimento dell’uranio, tuttavia, non potrebbe procedere più speditamente. Dieci giorni prima dell’attacco all’isola di Yeonpyeong la Corea del Nord aveva mostrato ad uno scienziato nordamericano un nuovo complesso di arricchimento dell’uranio. Siegfried Hecker, dell’Istituto Freeman Spogli di Studi Internazionali, ha dichiarato commentando i nuovi traguardi raggiunti dai nordcoreani che le dinamiche di sicurezza nella regione potrebbero cambiare radicalmente se la Corea del Nord riuscisse a costruire altri complessi simili. Secondo le ultime stime sarebbero già cinquanta i chili di plutonio che la Corea del Nord avrebbe prodotto. Una tale quantità basterebbe sicuramente per realizzare almeno sei ordigni atomici.
Ciò che rimane certo è che in passato la Corea del Nord ha provocato più volte il Sud ma dopo qualche tempo è tornata il più delle volte al tavole delle trattative. In effetti questo suo atteggiamento, ripetutosi più volte nel tempo, sembra quasi una sua costante nel modo di rapportarsi con l’estero e soprattutto con gli USA e la Corea del Sud.
Certo, questa volta la questione è andata decisamente oltre la semplice “innocente” provocazione. Delle persone sono morte e il presidente sudcoreano, non potendo mostrarsi debole all’opinione pubblica, è stato in qualche modo costretto ad organizzare esercitazioni militari, a rilasciare dichiarazioni dure contro il Nord e a trascurare più volte l’atteggiamento volutamente diplomatico e flessibile dei suoi predecessori.
Ora che il destino della penisola sembra gravare sulle spalle del presidente sudcoreano, che il mondo guarda con attenzione ogni suoi gesto, ascolta col fiato sospeso ogni sua dichiarazione e analizza ogni sua parola, sono sicuro che almeno una volta Lee Myung-Bak, nei momenti in cui non è circondato dai capi militari, dai politici, dalle folle, dai media e dall’attenzione del mondo intero, quando si trova a casa, da solo, assediato solo dai suoi pensieri, si sia trovato a pensare con innocente speranza almeno una volta: “chissà come sarebbe stato se avessimo avuto una Corea Unita”.
(Aggiornato il 24 dicembre 2010)
(Aggiornato il 24 dicembre 2010)
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