venerdì 12 novembre 2010

Il G-20 Asiatico

Magari il Summit del G-20 svoltosi a Seoul non verrà ricordato come il più clamoroso o come il più rumoroso, specialmente se paragonato a quelli di Londra o di Pittsburgh, ma ci sono state senz’altro alcune particolarità storiche che rischiano di essere fraintese o, peggio, sottovalutate.
Per questo motivo ritengo sia meglio analizzare almeno le più salienti.

Per due giorni, dall’11 al 12 novembre, si sono riuniti nella capitale sudcoreana i leaders delle venti maggiori economie del pianeta che insieme rappresentano circa l’85% del prodotto nazionale lordo mondiale, l’80% del commercio internazionale e ben due terzi dell’intero genere umano.
Seoul si è così trasformata per quarantotto ore nelle vetrina del mondo.

 Il G-20 è formato dall'Unione Europea più
 diciannove nazioni.Oltre un terzo sono asiatiche.
Spettri nella Città Fortezza
Una cosa è risultata immediatamente chiara agli stranieri una volta arrivati a Seoul: gli asiatici hanno preso la faccenda della sicurezza molto sul serio.
Per tutta la durata del Summit e specialmente nelle vicinanze della zona blindata (che avrebbe ospitato i leaders del G-20) le strade e i marciapiedi erano deserti, eccezion fatta per l’esercito di silenziose unità speciali che pattugliavano e controllavano i dintorni.
Gli abitanti, a giudicare da chi di loro si è prestato alle interviste della stampa straniera, si sono abituati velocemente alle restrizioni e alla strana atmosfera di allerta che permeava la città: sapevano bene che il “fastidio” sarebbe durato due giorni mentre il “prestigio” di ospitare il Summit sarebbe rimasto per sempre. Era la prima volta nella storia che un paese asiatico ospitava un evento del genere.

Mano a mano che i leaders e le delegazioni straniere giungevano a Seoul il clima si faceva più teso e le speculazioni (così come le previsioni) sugli esiti del Summit si moltiplicavano.
Cosa avrebbero escogitato questa volta le venti maggiori economie del pianeta per risolvere i problemi più pressanti dell’economia mondiale?
C’era sicuramente una volontà comune di rassicurare la comunità internazionale, dare un segnale forte che tutti i governi avrebbero incoraggiato la ripresa dell’economia, una ripresa giusta ed equilibrata. Sarebbe stato fatto inoltre uno sforzo per adattare le istituzioni finanziarie internazionali al nuovo contesto mondiale post-crisi e sarebbero stati creati nuovi posti di lavoro.
Semplici, buone intenzioni, insomma.
In realtà questo Summit era stato preceduto più di ogni altro da dissapori, lamentele e diffidenze.
Lo spettro dell’inquietudine aleggiava un po’ su tutte le delegazioni.
Più di qualsiasi altro G-20 quello di Seoul si preannunciava infatti già diversi giorni prima del suo inizio come il più controverso e il più turbolento di sempre.
C’erano diverse questioni sul tavolo che contribuivano a scaldare gli animi.
Tanto per cominciare la Federal Reserve (la Banca Centrale statunitense) aveva annunciato misure per “inondare di liquidità” il mercato, riversando nell’economia qualcosa come 600 miliardi di dollari. Dichiarazione questa che non era piaciuta a molti membri del G-20, tra cui la Germania e la Cina.
La Repubblica Popolare Cinese era a sua volta bersagliata dagli statunitensi a causa della sua riluttanza a rivalutare drasticamente la sua moneta (il renminbi) ed era quindi accusata di mantenere il valore delle sue merci artificialmente basso per contrastare la concorrenza.
Il G-20 di Seoul si preparava così a divenire il “ring” di una vero e proprio scontro di prospettive riguardanti la politica monetaria di questi paesi e le loro strategie economiche future.
Tutto era pronto per la tanto preannunciata “guerra delle valute”.

La moneta, come qualsiasi altro bene, ha un prez-
zo. "Cambiare" la propria moneta con un'altra vuol
dire "comprare" un'altra moneta.

Spiegando la Guerra delle Valute
Capire questa cosiddetta “guerra delle valute” (che era più o meno sulla bocca di tutti prima, durante e alla fine del Summit ma che ben pochi si sono degnati di spiegare) potrebbe risultare ostico per i non iniziati alla politica economica.
Sarà utile allora una rapida introduzione per spiegare successivamente con semplici parole in cosa consiste effettivamente questo apparentemente astruso concetto.

Per prima cosa è bene definire i concetti di bene e di moneta.
Un bene (inteso in senso molto amplio) è qualsiasi cosa che generi utilità per chi ne dispone: in questo senso può essere un bene un abbonamento mensile alla palestra, una mela, un libro, una lezione privata di inglese, ecc. Ovviamente i beni hanno un prezzo.
Ora, per quanto possa sembrare strano, anche la moneta è un bene, non diversamente da un carciofo o da un paio di occhiali. Infatti, se un europeo si recasse in Cina e volesse cambiare la sua moneta, (l’euro) con la moneta del luogo (il renminbi), dovrebbe pagare i renminbi con gli euro di cui dispone. Comprerebbe insomma i renminbi con gli euro che ha nel portafogli.
Fatto ciò l’europeo potrebbe recarsi in un negozio cinese e comprare i beni che vuole con i renminbi appena acquistati.
Così, è bene ricordarlo, quando sentiamo dire che qualcuno ha “cambiato” la propria moneta con la moneta del luogo in realtà non ha fatto altro che “comprare” la moneta del luogo.
Si capisce così che anche la moneta ha un prezzo, come qualsiasi altro bene.
Va poi detto che se una moneta è molto “forte” rispetto ad un’altra (come per esempio l’euro nei confronti del renminbi) è chiaro che la moneta più forte avrà un potere di acquisto maggiore sui beni venduti nel paese con la moneta “più debole”.
Con cinque euro a Roma al massimo compro un panino e una bibita. Se mi reco a Xi’an (famosa città cinese) e cambio quei cinque euro in renminbi con il ricavato posso invitare un amico a mangiare con me in un ristorante e forse mi avanza qualcosa per prendermi anche un panino e una bibita.
È ovvio che i beni di un determinato paese si comprano con la sua valuta (pensate cosa accadrebbe se un mongolo entrasse in un bar in Via del Corso e pagasse un pezzo di pizza con il tögrög, la valuta ufficiale del suo paese).
Una delle prerogative principali della moneta è dunque quella di fungere da mezzo di pagamento. Questa è dunque una delle differenze più significative tra la moneta e gli altri beni: la sua liquidità, ovvero il fatto che la moneta, a differenza di tutti gli altri beni, può essere utilizzata immediatamente nelle transazioni.
Un altro esempio chiarirà meglio quanto appena detto. Se io mi recassi in un negozio di scarpe e pretendessi di pagare un paio di Nike con un sacco di patate riceverei al massimo il recapito telefonico di un bravo psicologo. La moneta è utile dunque per comprare i beni che ci servono tutti i giorni e ci permette di fare ciò con facilità e semplicità.

Dunque, per ricapitolare, i beni di cui necessitiamo hanno un costo. Possiamo comprare questi beni usando la moneta. La moneta, come ogni bene, ha un prezzo. Se ci rechiamo in un paese che usa una valuta diversa dalla nostra per comprare un qualsiasi bene dobbiamo necessariamente comprare la moneta “locale” e, tramite questa, acquistare i beni che desideriamo. Se dispongo di una moneta “molto forte”, e voglio comprare beni in un paese che ha una valuta “molto debole” rispetto alla mia, idealmente posso comprare più beni di quanti ne comprerei nel mio paese.
Ciò detto è utile aggiungere che i governi dei vari paesi possono intervenire in vari modi per cambiare il valore della propria moneta.
Così, ad esempio, se il governo del paese Alfa vuole rendere i prodotti che produce più “competitivi” può svalutare la sua moneta. Svalutando la propria moneta le valute di altri paesi si “apprezzeranno” nei confronti della valuta del paese Alfa e dunque i beni che produce Alfa risulteranno più economici (e quindi più “appetitosi”) per i consumatori degli altri paesi.
I consumatori di tutti gli altri paesi cominceranno allora ad acquistare beni dal paese Alfa visto che questi sono meno cari.
Ovviamente questa situazione andrebbe benissimo per il paese Alfa, ma non tanto bene per gli altri paesi, che vedrebbero le loro esportazioni diminuire (battute dalla concorrenza di Alfa) e le loro importazioni aumentare. Il paese Alfa in questo modo potrebbe accumulare quelli che vengono chiamati “attivi commerciali”.
Diciamo ora che nel nostro mondo fittizio il paese Omega volesse vendere anch’esso più beni nei mercati stranieri. Come ha fatto Alfa, potrebbe svalutare la propria moneta per far si che i suoi beni siano più competitivi.
Per le imprese di tutti gli altri paesi che non sono Alfa o Omega sarà più difficile competere nei mercati internazionali a causa della maggiore “appetibilità” dei beni dei paesi Alfa e Omega.
Semplificando al massimo una situazione che semplice non è, i consumatori di tutto il mondo preferirebbero comprare i beni meno cari dei paesi Alfa e Omega ma, così facendo, le imprese di tutti gli altri paesi andrebbero in bancarotta perché non riuscirebbero più a vendere i propri beni a causa della “concorrenza sleale” di Alfa e di Omega.
Questa ipotetica situazione potrebbe generare una “guerra delle valute” in cui i paesi si accusano l’un l’altro di “concorrenza scorretta” e di svalutazione artificiale della moneta.

  Nel Summit di Seoul non si è fatto molto gioco di squadra.
Il G-20 di Seoul
La cosiddetta guerra delle valute non è in realtà una novità per nessuno. il Summit del G-20  (grazie alla sua visibilità internazionale) ha soltanto contribuito a riportare questo tema in primo piano.
Paesi come la Cina seguono da tempo una politica monetaria che permette al renminbi (che è una moneta fortemente “svalutata” dal governo cinese) di mantenere un valore artificialmente basso nei confronti di altre valute, comportandosi come il paese Alfa della situazione.
Questo perché sono le autorità governative e la stessa Banca Centrale cinese che tengono il cambio della loro moneta al valore desiderato per permettere così alle merci cinesi di essere più competitive sul mercato e quindi di “avvantaggiarsi” sulla concorrenza.
La novità del G-20 di Seoul è stata che anche gli USA sembra abbiano deciso di adottare una strategia simile inondando il loro mercato di dollari (seicento miliardi circa) e conseguentemente svalutando la loro moneta per rendere evidentemente le merci statunitensi più competitive (comportandosi in questo modo come il paese Omega della situazione).
A paesi come la Germania, il Brasile, la Russia (tutti gli altri paesi, insomma) una mossa del genere non è piaciuta affatto e per questo motivo gli Stati Uniti sono stati costretti a resistere a molte pressioni e in particolare il presidente Obama ha dovuto difendere a più riprese la politica della Federal Reserve (per gli amici "Fed").
Obama ha sostanzialmente giustificato la decisione della Fed affermando che: “la cosa più importante che gli Stati Uniti possono fare per l’economia mondiale è crescere perché noi continuiamo ad essere il mercato più grande del mondo”. Affermazione più che giusta anche se un po’ scontata ed egoista. Traducendo dal politichese le parole del presidente nordamericano è come se in realtà egli avesse detto qualcosa del genere: “La volete o no questa crescita economica? Allora tutti voialtri dovete soffrire un po’ per farci stare meglio.”
I leaders hanno comunque saputo gestire le differenze e, almeno sulla carta, tentato di porvi rimedio con dichiarazioni congiunte e discorsi concilianti.
Stando in particolare alla dichiarazione finale del Summit (Leggi il testo completo della dichiarazione di Seoul) la “guerra delle valute” sembra essere stata scongiurata.
Tuttavia a ben vedere non ci sono altro che vuote parole a conferma di questo fatto.
Nella suddetta dichiarazione congiunta si afferma sostanzialmente che gli obiettivi dei venti partecipanti sono: rafforzare l’economia globale, accelerare la creazione di posti di lavoro, assicurare mercati finanziari più stabili, aiutare i paesi sottosviluppati e promuovere una crescita economica il più possibile diffusa e generalizzata.
In sostanza si sono riproposti di fare quello che avevano già detto avrebbero fatto all’inizio del Summit.
Il G-20 di Seoul, il primo sul territorio asiatico, si è dunque risolto in un pezzo di carta senza valore?

Il prossimo appuntamento del Summit del G-20 sarà in Francia nel 2011.
“Shared Growth Beyond Crisis”
Quando il tanto atteso e pubblicizzato Summit del G-20 si è chiuso ufficialmente a Seoul, capitale della Repubblica di Corea, l’espressione di molti giornalisti, cameraman e reporter accorsi rispettivamente per raccontare, immortalare o presentare l’evento internazionale diceva molto.
Era l’espressione delusa e al tempo stesso basita di un giovane e rampante ventenne che si aspetta L'Oktoberfest e che invece si ritrova in una riunione di alcolisti anonimi.
Le aspettative pre-Summit gonfiate a dismisura dai proclami dei politici, dai servizi televisivi delle maggiori emittenti del mondo e dalla attuale situazione economica internazionale hanno lasciato l’amaro in bocca.
In questo clima di incertezza e di sfiducia, dopo che nessuna decisione effettivamente vincolante è stata presa nella capitale sudcoreano per assicurare una crescita generalizzata, la frase simbolo del Summit di Seoul, “Shared Growth Beyond Crisis” (“Crescita Condivisa Oltre la Crisi”) suona un po’ come una barzelletta che nessuno ha capito bene.
La “guerra delle valute”, il fulcro di questo G-20, è un argomento del quale si è discusso  fino alla nausea ma che alla fine nessuno si è anche solo sognato di affrontare veramente.
I leaders delle venti maggiori economie del pianeta sembrano essersi incontrati per due giorni a Seoul solo per sorridersi a vicenda, stringersi la mano e salutare le telecamere.
Nei quattro Summit precedenti al G-20 erano state prese decisioni periodizzanti, politiche comuni e soprattutto si era effettivamente comunicato. Questo forum internazionale sembrava  veramente la spinta propulsiva di un nuovo ordine fondato sulle decisioni condivise dalla maggioranza.
A Seoul sembra essere mancata quella fondamentale volontà politica che può e deve caratterizzare questa importante piattaforma politica ed economica chiamata G-20.


Mix

2 commenti:

  1. Niente male vecchio mio !!!

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  2. "I leaders delle venti maggiori economie del pianeta sembrano essersi incontrati per due giorni a Seoul solo per sorridersi a vicenda, stringersi la mano e salutare le telecamere."

    Veramente scoraggiante questa tua affermazione, ma certo è così: di fronte alla grave situazione economico-sociale in cui il mondo intero si trova occasioni sprecate come quella di Seul suscitano rabbia e sconcerto.

    Complimenti per la chiarezza nonostante la complessità del tema.

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